Non sottovalutabile tensione interessante e diffuso trend che talora ama dirsi, con smargiasso profetismo, post-contemporaneo, il ritorno [a volte pure sobriamente] entusiastico, a forme della reazione come preteso esito di un auto-imposto e/o propagandato fallimento di ogni istanza decostruttiva e assetto prospettivistico.
Similmente al guitto apprendista dell’iniziazione, o anche al sedicente iniziato, che scambia l’iniziazione con la meta e l’oggetto ideale, con la rappresentazione della quale subisce assieme il fascino e la schiacciante presenza, relegandosi ad uno stato di necessaria minorità e condannandosi all’esiziale fraintendimento pregiudiziale che gli impedisce di dissolverla, così il rinato reazionario è non di rado il prodotto di un’auto-limitazione critica, di una radicalità monca, giocata all’interno di un pre-organizzato set, a volte invero desiderata e pertanto in tal caso ipocrita, quando non pure eventualmente premeditata.
Affermare il fallimento sopra indicato ripiegando una critica radicale su di sé, aggirandone i meccanismi attraverso l’introduzione di limiti impliciti e assiomatici, è un esempio di questo stesso regime anestetizzante; talvolta, è una pratica certosina di recupero spettacolare.
Da dove, quindi, la reazione?
Dal desiderio per essa certamente , e con non scarsa probabilità, da un desiderio mosso all’interno di un paradigma duale che non concede o non vuol saper di concedersi all’abbattimento dei propri elementi fondativi, inclusi un modo anche indotto per convincimento del desiderare come necessariamente avente un oggetto Altro da sé, più o meno inafferrabile e mortificante oltre che gerente; un esercizio razionale assiomaticamente pre-delimitato; una volontà di determinazione di senso/forma ed anche propriamente di legge avvertita come meta-storicamente necessaria, veramente tale, solo empiamente aggirabile (essendo quindi assunta come legge anche la legge d’avere legge, miserevolmente).
Una assopita, o pure auto-sabotata radicalità; una forma di turismo speculativo, di frivolo intrattentimento dalle nondimeno serie ed efficaci conseguenze.
È piuttosto evidente, benché forse limitatamente avvertito, che siano in atto plurime tensioni reazionarie, intrecciatamente composte e delineate, talora accuratamente ideologiche: l’esplosione del neo-ruralismo “neolitico”, l’anti-tecnicismo neo-heideggeriano, il sempre florido terzoposizionismo, l’”heideggero-stalinismo” di taglio nazionalbolscevico non meno che catto-fascista; l’identitarismo nazionalista e/o eurocentrista affine al cosiddetto razzismo differenzialista che beninteso piano razzismo rimane , talora anti-semita o anche suprematista bianco, sempre volto alla terra e spesso anche al supposto spirito nonché al sangue, alla logica e narrazione della
vita autentica e genuina; l’educazionismo nazionale e la logica dell’esempio, dell’eroe, dell’onore; il rifiuto solo finto o parziale del lavoro determinante l’
aut aut prodotto dalla divisione del lavoro alienante che trascina alla partecipazione alla
dominazione o alla defezione punita, invero non poi lontanamente da quanto accade secondo la logica della specializzazione e della narrazione meritocratica, a sua volta in qualche misura vicina allo slancio dialetticamente/costruttivamente (dualisticamente) avanguardistico, spesso quest’ultimo recuperato in chiave populista [nel senso di un populismo come nutrimento e propaganda di un
buon senso comune inteso come prodotto di una sclerosi rappresentazionale, spettacolare, ordinante e gerarchizzante], reazionaria, nazional-nazionalista ed identitaria [in questo senso, non è infrequente, oggi ma è un processo in atto da quattro decenni almeno assistere al recupero fascista di pensieri quali quello gramsciano, tra gli altri], il tradizionalismo evoliano ed affine come minimo [cosa c’entra il fatto di rifiutare, per finta/parzialmente, il lavoro, riassestandolo a condizioni neolitiche ed eventualmente corporativistiche con il rifiuto non anti-tecnicista e "paleolitico" del lavoro, anti-utilitarista sia in senso competitivo ed accumulativo che pauperista, e avverso alla divisione del lavoro, forma di alienazione addomesticante?
Sono due posizioni contro l’utilitarismo competitivo-accumulativo capitalistico differenti: una si risolve anche situazionisticamente in una visione autonomista, destituente, non anti-tencicista e non utilitarista; l’altra, in una forma meno evidente di capitalismo di stato e/o comunitarista che nondimeno capitalista rimane. E che anzi è meno flessibile, meno dinamica: offrendo minori vie di fuga interne sia detto senza funzioni implicitamente elogiative rispetto al capitale , senza contare che, ironicamente, certe prospettive organizzative e passatiste, mitiche, non solo sono ovviamente storiche anch’esse, materialmente prodotte, ma anche moderne, sia come produzione interpretativa, sia come tensione platonicamente moderne (così come accadde, allo stesso modo e pure umoristicamente, con la derive ideologiche e pertanto religiose dell’illuminismo, del tutto distanti dalla nota definizione kantiana), oltre che a loro volta storicistiche anche nelle rivendicazioni pretenziosamente meta-storiche (ancora ironicamente, a differenza di quelle visioni che, materialisticamente storiche, davvero non sono storicistiche e nemmeno sono storicizzanti, considerando l’immanenza come sempre in atto, simultaneamente e “carnalmente” attuale-virtuale, ed il presente non come un dato di un processo teolologico-escatologico ma come sempre in-attuale nella sua immediatezza
autotelicamente escatologica, qui ed ora, senza fine Altro, né recupero edenico o aureo allo stesso modo da restaurare].
È inaggirabile la portata di simili fenomeni, che non sono alieni, e che si riverberano largamente anche in un propagandato “sentire comune”, che, anche quando digerito e letterariamente trasformato ed apparentemente addomesticato, non va scambiato per innato naturalmente o per volgarmente semplice, e tanto meno inefficace.
Assieme, se si considera come il passato sia contenuto nel presente sottoforma di
figura di esso, in un rapporto di corrispondenza biunivoca, mi pare nondimeno importante ragionare su come sebbene ogni regime interpretativo risponda, come tutto, delle circostanze, materialisticamente, non significa che tali figure, per quanto reversibili, siano determinate o determinabili,
prima o poi.
Eliminate la linearità cronologica, l’epocalità, la nostalgia [anche del futuro], la generazionalità: scannerizzare e decodificare ogni presente come diffrazione anacronistica, che sospenda una fissa attualità per l’attualità dell’in-attualità; le condizioni interattive, materialistiche e l’ontologia delle singolarità, che, escludendo la
genesi a favore di un’
origine come sempre in scorrimento, ed escludendo personalismo ed autorialità, si restituisce e riafferma come necessaria in-attualità del presente, fuori da Kronos, affrancando le cose e gli usi dalle identità oggettuali e dalle pratiche linguistiche e, di lì, bio-politiche ammaestranti.
Altrimenti, è forse possibile intravedere il rischio del debito, o, almeno, l’auto-convincimento di una significanza e di un risultato, d’una “resa dei conti”, seppure indeterminatamente lontane, ma dovute. E assieme, una [più che comune] idea e pratica del desiderare come ineluttabilmente ed esizialmente incatenata ad un oggetto Altro; il senso di colpa, il dualismo e l’ordine soggiogante [e non solo, ottimisticamente, la noia].
Il desiderare Altro, tendenzialmente formalistico; la volontà di senso/forma, determinante, gerarchizzante, riducente, asservente d’un asservimento vertiginoso che è sintomo di una vertigine fattasi civiltà, infine negante se stessa, e quella civiltà in senso lato di una vertigine che, tragica, è anche festosa e non si intende produrre nella fermezza monumentale del boia accecato dal candore fetido di un’assuefazione da entusiasmo cherubinico: tutto ciò è quanto meno interessante, e solo stupidamente trascurabile.
L’interesse per il cosiddetto mondo tradizionale, o anche per il tradizionalismo (pure politico), e più generalmente per il mito [e a proposito, è davvero possibile, materialisticamente, che si possa in fondo dividere il mito dal
mito tecnicizzato?], per esempio, non necessariamente è indicatore di un essere reazionari: è evidente anche il contrario (prendiamo Kant, Bataille e Huxley, Tzara e Adorno, e innumerevoli altri, da Michaux a Burroughs a Benjamin); ed anzi mi sospingerei, pure scansando qualsiasi indicazione metodologica precisa, a dire che la questione del mito e della rappresentazione e del religioso, e quindi anche dell’ideologico, dello spettacolare, è necessaria a chiunque intenda prodursi in uno sguardo radicale, essendo tutto il politico in senso
mediamente corrente, aristotelico, non meno che in senso immanente e anti-istituzionale immediatamente connesso alla questione onto-teologica e metafisica, oltre che linguistica e in tal senso allo stesso modo e ancora simbolica.
Certamente, ci si sbatte contro: se ci si tira indietro, ci si costituisce come predestinate prede: pertanto, è forse in qualche misura necessario o almeno auspicabile occuparsene per non esserne occupati [e in tal senso trovo interessante e determinante la questione della decostruzione e non solo del
détournement simbolica e poi segnica].
In
Economia libidinale, Jean-François Lyotard opera chirurgicamente nel delucidare come vi sia della passione perfino nell’ordine: ed è proprio una tale affilata osservazione disgregante a rivelarsi mai scontata e necessaria nel sedare la reazione e ad affermare l’efficacia e l’implacabilità di una tensione decostruente pertanto vibrante e non fallita o fallimentare , allo stesso tempo, non rimuovendo la reazione dall’insieme inesaurito ed inesauribile (almeno finché vi sarà anche un solo animale-umano vivente) delle eventuali possibili modalità coincidenti col reale stesso, del quale l’operazione materialistica radicale è istologia.
Soltanto un relativismo radicale, ontologicamente nonduale, non impedisce alcuna eventuale posizione, e però arrestando la possibilità che il relativismo stesso possa essere dirimentemente sgominato a favore di una determinata posizione, a differenza di prospettive ancora “kantianamente deboli”, ancorché già squisite esse siano nell’introdurre i germi della dissoluzione dell’impositiva arbitrarietà metafisica (ma a non sciogliersi sono ancora, in tal caso, pure il senso di colpa e la sua corona di prudenziali timori nondimeno per taluni così desiderabili e piacevoli).
E questa, paradossalmente, è una posizione “forte”, inconcessiva rispetto alle variegate [non di rado elogiate, e naturalmente propagandate] pratiche affermative soggioganti.
In altri termini, il nichilismo valoriale [apparentemente attualmente fuori moda e rimpiazzato dal trend reazionario e restauratore, come se ciò costituisse quasi un marchio, un sigillo si potrebbe dire, biecamente scherzando alla stregua dell’indossare Rolex Daytona, che certamente non hanno la complessità d’un Vacheron Constantin] e pertanto la massima variabilità esistenziale possibile è “garantito” solo dalla perpetua, pragmatica, mai definitiva disintegrazione del nichilismo ontologico, del dualismo, della verticalità gerente. A questa finalmente defunta dualità approda il movimento [non] meditativo decostruente e destituente.
Il nichilismo ontologico, al contrario, è ancora collaborazionismo: anche quando si dà come fondamento necessario della sclerosi rappresentazionale passivamente patita, talvolta propedeutica alla reazione verso la reazione [incline ad essa: un nichilismo finto, passivo, deluso e risentito, e quindi invero anche speranzoso e annaspante in un oceano di valori disciolti o apparentemente tali , lamenti per padri evaporati e infiacchite forze katechoniche, e in fondo alla ricerca di un riscatto riordinante, è notoriamente facile mira e nutrimento della spettacolare propaganda aggiogante: ma si tratta appunto non di nichilismo, né di posizioni ragionanti e particolarmente ragionate: per il resto, torna persino comodo Schmitt, a ricordare come una guerra o un ordine, una risoluzione, aggiungerei combattuta per dare fine o prevenire un'altra guerra, è un inganno manifesto e certamente dei più beceri e mai dismessi], anche secondo la miserevole logica della rivoluzionarietà ordinante, ben più disastrosa di ogni vivificante dis-astro e vertiginosa, tragica, magmaticamente ingestibile caoticità complessificante.
A quando lemancipazione dalle concatenate positività?
È una domanda retorica, e personalmente risponderei: «A mai», perché non è una questione di fine, e semmai il dramma sta nelle soluzioni e nelle conservazioni d'ogni
stato rappresentazionale: il punto, che punto non è, è la prassi, e o si dissolve e complessifica, tenendo certamente conto del maggior numero di variabili e pratiche esistenziali immaginabili e producibili, o si cede, si collabora: comunque si subisce, pure per taluni casomai bovinamente imbacuccati in rassicurati sorrisi e sonni miti, strutturalmente utili.
Kazuo Shiraga, Mouka, 1980